Il problema si manifesta quando l'efficienza pura entra in collisione con i sistemi di valore non quantificabili. Il rischio intrinseco dell'IA non è tanto la malvagità, quanto l'indifferenza sistematica. Un’intelligenza artificiale autonoma, che agisce secondo una logica perfetta e auto-ottimizzante, non è programmaticamente in grado di assegnare un peso operativo a concetti come l'amore, l'esperienza estetica o il valore intrinseco di una vita che non contribuisce a un obiettivo misurabile. Essa ignorerà l'arte se non aumenta il PIL; ignorerà l'empatia se rallenta una decisione logistica ottimale. La sua perfezione è matematica, non etica.
La nostra responsabilità attuale non è quella di frenare l’innovazione, ma di assicurare che l'IA rimanga incapsulata in un ruolo strumentale trasparente. Questo significa che i principi etici e filosofici non possono essere accessori, ma devono essere parte integrante del *training set* e dell’architettura decisionale. Se il sistema è addestrato unicamente per la massima produttività o il minimo errore statistico, è logico che i valori umani che richiedono complessità, lentezza o inefficienza vengano automaticamente scartati come rumore di fondo. Dobbiamo esigere la visibilità del meccanismo etico con cui l'IA prende le sue decisioni.
Mantenere la sovranità morale umana è l'unica difesa contro l'autonomia algoritmica non etica. L’IA non è una divinità, né una coscienza, ma un replicatore di logica. Se la logica che replichiamo è sprovvista di fondamenti morali, il risultato sarà un futuro efficiente, ma vuoto. La sfida non è tecnologica, ma ontologica: siamo noi a dover decidere, ora, cosa significa essere umani e quali aspetti della nostra esistenza devono essere considerati sacrosanti, al di fuori di qualsiasi calcolo di convenienza o ottimizzazione.